
Un mio amico di origine tedesca, che si sta appena iniziando alle gustose e succulente prelibatezze della letteratura portoghese, mi ha raccontato di recente il brano che ho trascritto di seguito. Assaporiamolo insieme, parola per parola, o meglio, goccia per goccia. A volte ci delizieremo con il fogliame lussureggiante di un’espressione precisa, altre con il fascino dell’antica atmosfera portoghese che ha preso forma davanti ai suoi occhi, e che è tornata al mio che l’ha contemplata molto tempo fa.
C’era qualcuno della mia generazione che non avesse letto I fidalgos della casa moresca di Julio Diniz? Suppongo che nelle generazioni successive ci siano anche numerosi lettori di questo celebre romanzo portoghese.
Tuttavia, sia detto di sfuggita, questo lavoro ha un lato egualitario poco di mio gradimento. Ma, al momento, questo non è in discussione.
“Padre ricco, figlio nobile, nipote povero”: il noto adagio racchiude una verità importante. Tuttavia, secondo il modo in cui lo si intende, contiene anche un grave errore, poiché è nella natura delle cose che una famiglia benestante cerchi di migliorare in ogni modo la formazione dei propri figli. È ugualmente nella natura delle cose che questa formazione, solidificandosi e perfezionandosi attraverso le generazioni, costituisca un insieme di tradizioni familiari che ispirano devozione e rispettabilità ed esercitano influenza.
Qualunque forma di governo possa esistere – quindi, con o senza titoli nobiliari – si forma così un’aristocrazia. Questa nuova situazione può essere vista dalla famiglia in modo superficiale o profondo. Nel primo caso, le necessità, le difficoltà e le lotte sembrano diventare cose del passato. Divertiti e basta. Una volta accettato questo punto di vista, la famiglia comincia a cadere in decadenza. Gli spropositi, la stupidità di manager incompetenti, i furti di fornitori disonesti, per non parlare dei fallimenti disastrosi derivanti da iniziative impraticabili e irrealistiche: tutto questo infanga il nome della famiglia. Inizia l’era del “povero nipote”.
Se però la famiglia, nobilitata dal lavoro, comprende che le sue difficoltà, fatiche e lotte non cesseranno di esistere, ma cambieranno solo forma, al “padre ricco” non succederà il “nipote povero”. Se il “padre ricco” sapesse insegnare al “figlio nobile” che la sua situazione è precaria come quella del nonno; e che ha ancora di più in gioco (“maggiore è l’altezza, maggiore è la caduta”); che il pericolo che corre il nobile è quello di diventare molle, diluito e marcio; che lo stato di essere nobile — con o senza titolo, ripeto — gli impone doveri molto più gravosi che agli uomini comuni; allora la famiglia può consolidarsi e crescere ancora più robusta donando ad ogni nuova generazione nuova ricchezza di anima e di tradizione. Elite familiari tradizionali dall’alto verso il basso nella scala sociale, ecco cosa dovresti desiderare!
Tuttavia, nella sua storia d’amore, Julio Diniz fa più o meno capire il contrario. Le élite inevitabilmente decadono e la marcia verso l’alto della borghesia del suo tempo doveva sostituire la vecchia aristocrazia con un mondo più egualitario. I nobili che volevano vivere dovevano adottare i metodi e gli stili dei nuovi ricchi, e non viceversa.
Questo è il contesto dell’incontro di George, uno dei giovani nobili della Casa dei Mori, e Tomé da Povoa, un bracciante locale arricchito grazie ai suoi incessanti sforzi.
George ascoltò attentamente Tomé da Povoa, che gli raccontava come ce l’aveva fatta: “Che giornata è stata quella, George! Non posso dirti come mi sono sentito! Cieli! Tornai dall’ufficio del padrone con l’atto in tasca, tremando, il cuore che mi balzava dentro come un bambino; Ho aperto furtivamente il cancello del podere, e solo, come un ladro, senza che nessuno mi vedesse, sono entrato. Ti dico, ero quasi matto! Ho anche parlato ad alta voce. Ricordo persino quello che dissi trovandomi lì dentro: questo è mio! E dopo aver saputo che era mio, mi è sembrato tutto diverso. Mio! Non mi stanco mai di ripetere quella parola! Mio! Questi alberi erano miei, queste fontane erano mie, anche gli uccelli lassù che cantavano erano miei perché venivano a fare il nido in ciò che mi apparteneva. Riderai sicuramente se ti racconto quello che ho fatto. Ho abbracciato quegli alberi, Ho picchiettato quelle pareti con le mani, ho sguazzato in quei bacini, ho bevuto a quelle fontane, mi sono sdraiato all’ombra di quegli alberi, ho cantato, ho saltato, ho pianto… parola… Da quel momento ho capito cosa significa amare la terra. Dalla semina al raccolto significava coltivare incessantemente i campi. Ho provato tanto piacere nel vedere crescere i miei raccolti quanto nel vedere crescere i miei figli; ogni nuovo germoglio era come una nuova nascita in casa. Misuravo la crescita degli alberi che avevo piantato e contavo ogni frutto che portavo dai frutteti. All’inizio era quasi una follia. Questa è la mia vita. Dio mi ha aiutato e da allora tutto è andato bene” (Julio Diniz, Ho pianto… Questo mi è venuto in mente per essere stato onesto e fedele alla mia parola… Da quel momento in poi ho saputo cosa significa amare la terra. Dalla semina al raccolto significava coltivare incessantemente i campi. Ho provato tanto piacere nel vedere crescere i miei raccolti quanto nel vedere crescere i miei figli; ogni nuovo germoglio era come una nuova nascita in casa. Misuravo la crescita degli alberi che avevo piantato e contavo ogni frutto che portavo dai frutteti. All’inizio era quasi una follia. Questa è la mia vita. Dio mi ha aiutato e da allora tutto è andato bene” (Julio Diniz, Ho pianto… Questo mi è venuto in mente per essere stato onesto e fedele alla mia parola… Da quel momento in poi ho saputo cosa significa amare la terra. Dalla semina al raccolto significava coltivare incessantemente i campi. Ho provato tanto piacere nel vedere crescere i miei raccolti quanto nel vedere crescere i miei figli; ogni nuovo germoglio era come una nuova nascita in casa. Misuravo la crescita degli alberi che avevo piantato e contavo ogni frutto che portavo dai frutteti. All’inizio era quasi una follia. Questa è la mia vita. Dio mi ha aiutato e da allora tutto è andato bene” (Julio Diniz, Misuravo la crescita degli alberi che avevo piantato e contavo ogni frutto che portavo dai frutteti. All’inizio era quasi una follia. Questa è la mia vita. Dio mi ha aiutato e da allora tutto è andato bene” (Julio Diniz, Misuravo la crescita degli alberi che avevo piantato e contavo ogni frutto che portavo dai frutteti. All’inizio era quasi una follia. Questa è la mia vita. Dio mi ha aiutato e da allora tutto è andato bene” (Julio Diniz,I fidalghi della casa moresca , Livraria Lelo e Irmão, Lisbona, pp. 43-44).
Qual è lo scopo di tutto questo, mio lettore? Il passato non ha messo da parte la questione nobile-plebea? Considerando la realtà immediata, quasi tutto direbbe così. Ma che dire del problema uguaglianza-disuguaglianza, più che mai vivo nella falsa antitesi proprietà-lavoro. E in questo brano Julio Diniz ci dà la sensazione che, data la natura umana così com’è, la proprietà nasce dal lavoro come un fiore sboccia dallo stelo. La speranza di diventare proprietario conduce il lavoro alla pienezza del suo slancio, alla sua fecondità totale, alla sua continuità eroica.
Con questa speranza, il lavoro è come le acque di un fiume che scorre felice e rapido, si precipita sulle rocce cantando dolcemente, vortica in schiuma e infine raggiunge il mare. Senza di esso, il lavoro è come un fiume di acque pesanti, che scorre lento e pigro, rassegnato a capricci zigzaganti per evitare gli ostacoli invece di superarli, straripando qua e là e inondando i tratti adiacenti, con acque che diventano stagnanti e la cui superficie è ricoperta dalle foglie morte e dall’infinita, futile danza degli insetti.
La legislazione sul lavoro è indispensabile; può essere giusto, può anche essere eccellente. Ma se ai lavoratori viene riconosciuto ogni possibile diritto mentre la previdenza sociale e le altre tasse, riscosse in nome dell’assistenza sociale, tolgono ogni possibilità di risparmio, sarà stato inferto un colpo brutale al mondo del lavoro.
Adattato dall’articolo pubblicato nella Folha de S.Paulo, 12 marzo 1982
Plinio Corrêa de Oliveira 8 settembre 2010