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3Cos’è la tolleranza?

Cos'è la tolleranza?

Quando si tratta di tolleranza, la confusione regna sovrana. Tutti ne parlano, ma pochi sembrano sapere esattamente di cosa si tratta.

Cos’è, allora, la tolleranza?

Immaginate un uomo con due figli, uno con sani principi e una forte volontà e l’altro con principi indecisi e una volontà vacillante. Un giorno passa dal paese dove abita la famiglia un professore che presenterà un corso vacanza che sarebbe di straordinaria utilità per entrambi. Il padre vuole che i suoi figli seguano il corso, ma vede che questo significherà privarli di varie uscite a cui entrambi tengono molto. Soppesando i pro ei contro, decide che sarebbe meglio per i suoi figli rinunciare ai loro diversivi, per quanto legittimi, piuttosto che perdere questa rara opportunità di miglioramento intellettuale. I giovani reagiscono a questa decisione in modi diversi. Il primo figlio, dopo un momento di riluttanza, accetta il desiderio del padre. L’altro si lamenta e implora il padre di cambiare idea,

Di fronte a ciò, l’uomo sostiene la sua decisione con il suo buon figlio. D’altra parte, considerata la difficoltà che il suo mediocre figlio avrebbe a seguire la routine accademica e prevedendo molte occasioni di dissenso che si sarebbero presentate nei loro rapporti quotidiani, decide, per la salvaguardia a lungo termine degli immutabili principi morali, che sia meglio non insistere. Lui cede e questo figlio non deve seguire il corso.

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Agendo così con il figlio mediocre e pigro, il padre diede a malincuore il suo permesso, ma non fu in alcun modo un’approvazione. Era un permesso estorto. Per evitare un male (gli attriti con il figlio) gli concesse un bene minore (i viaggi di vacanza) e rinunciò al bene maggiore (il corso). È questo tipo di consenso, dato senza approvazione e persino con censura, che chiamiamo tolleranza.

È vero che la tolleranza a volte significa accettare non un bene minore per evitare un male, ma un male minore per evitarne uno maggiore. Tale sarebbe il caso di un padre che, avendo un figlio che ha acquisito diversi gravi vizi che sarebbe impossibile superare tutti in una volta, progetta di combatterli successivamente. Così, mentre cerca di contrastare un vizio, chiude gli occhi sugli altri, accedendovi con profondo disgusto come un modo per evitare un male più grande, che sarebbe quello di rendere impossibile la correzione morale del figlio. Questo è tipicamente visto come un atteggiamento di tolleranza.

Come abbiamo appena visto, la tolleranza può essere esercitata solo in situazioni anormali. Se non ci fossero bambini cattivi, per esempio, non ci sarebbe bisogno di tolleranza da parte dei genitori. Quanto più i membri di una famiglia sono costretti a praticare la tolleranza tra di loro, tanto più anomala sarebbe la loro situazione.

La realtà di tutto ciò è più evidente se si considera il caso di un ordine religioso o di un esercito i cui superiori devono abitualmente praticare una tolleranza illimitata con i loro subordinati. Un tale esercito difficilmente vincerebbe battaglie, e un tale ordine non si dirigerebbe verso le alte e aspre vette della perfezione cristiana.

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In altre parole, la tolleranza può essere una virtù. Ma è una virtù caratteristica di situazioni anormali, difficili e pericolose. Possiamo dire, allora, che è la croce quotidiana del fervente cattolico in tempi di desolazione, decadenza spirituale e rovina della civiltà cristiana.

Per questo si comprende quanto sia necessario in un secolo catastrofico come il nostro. In ogni momento il cattolico del nostro tempo incontra la prospettiva di tollerare qualcosa. In treno o in autobus, per strada, sul posto di lavoro, nelle case che frequenta, negli alberghi dove va in vacanza, incontra ad ogni istante soprusi che gli provocano un grido interiore di indignazione. È un grido che a volte è costretto a trattenere per evitare un male più grande. È un grido che in circostanze normali sarebbe un dovere di onore e di coerenza.

Di passaggio, è curioso osservare la contraddizione in cui cadono gli adoratori di questo secolo. Da un lato, ne innalzano enfaticamente le qualità alle nuvole e tacciono o minimizzano i suoi difetti. D’altra parte, non cessano di apostrofare i cattolici intolleranti, invocando tolleranza, reclamando tolleranza, chiedendo tolleranza a favore di questo secolo.

Non si stancano di affermare che questa tolleranza deve essere costante, onnicomprensiva e illimitata. È difficile capire come non possano percepire la loro incoerenza. Infatti, se c’è tolleranza solo nell’anormalità, proclamare la necessità di maggiore tolleranza afferma l’esistenza dell’anormalità.

In un modo o nell’altro, Greci e Troiani concordano nel riconoscere che la tolleranza è assolutamente necessaria nella nostra epoca.

Date queste condizioni, allora, è facile intuire quanto sia errato l’uso corrente in materia di tolleranza. In effetti, la parola è comunemente usata in elogio. Quando qualcuno dice che un altro è tollerante, l’affermazione è accompagnata da una serie di complimenti impliciti o espliciti: magnanimi, di grande cuore, di larghe vedute, generosi, oggettivi, naturalmente inclini alla simpatia, alla cordialità e alla benevolenza. E, logicamente, qualificare qualcuno come intollerante porta con sé una sequenza di rimproveri più o meno espliciti: gretto, irascibile, malevolo; spontaneamente incline al sospetto, all’odio, al risentimento e alla vendetta.

In realtà, niente è più lontano dalla verità. Se ci sono casi in cui la tolleranza è un bene, ce ne sono altri in cui non lo è. E può anche essere un crimine. Pertanto, nessuno merita lode per essere sistematicamente tollerante o intollerante, ma piuttosto per essere l’uno o l’altro a seconda delle circostanze.

La questione, quindi, è un po’ diversa: non è il caso di decidere se qualcuno debba essere sistematicamente tollerante o intollerante. Ciò che conta è decidere quando uno dovrebbe essere l’uno o l’altro.

Prima di tutto è opportuno segnalare che c’è una situazione in cui il cattolico deve essere sempre intollerante, cioè verso il peccato, al quale non ci sono eccezioni. Non si può tollerare di commettere qualche peccato per piacere agli altri o per evitare un male più grande. Poiché ogni peccato è un’offesa a Dio, è assurdo immaginare che in una certa situazione Dio possa essere virtuosamente offeso.

Questo è così ovvio che può sembrare superfluo affermarlo, ma, in pratica, quanto è necessario ricordare questo principio.

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Ad esempio, nessuno ha il diritto, per essere tollerante con gli amici e guadagnarsi la loro simpatia, di vestirsi in modo immorale o di adottare i modi licenziosi o frivoli di chi conduce una vita disordinata. Né alcuno ha il diritto di esibire idee avventate, discutibili o anche erronee, né di vantarsi di vizi che in realtà — grazie a Dio — non ha.

Per fare un altro esempio, un cattolico che è consapevole dei doveri di fedeltà affidatigli dalla Scolastica ma che professa un’altra filosofia solo per accattivarsi le simpatie di certi ambienti, pratica una forma inaccettabile di tolleranza. Pecca contro la verità professando una teoria che sa contenere errori, anche se non sono contro la Fede.

L’obbligo di intolleranza, in casi come questi, va ancora oltre. Non basta astenersi dal praticare il male; è necessario che non lo approviamo mai, né per azione né per omissione.

Il cattolico che assume un atteggiamento comprensivo di fronte al peccato o all’errore pecca contro la virtù dell’intolleranza. Così accade quando assiste, con un sorriso senza riserve, a una conversazione o scena immorale, o quando in una discussione ammette il diritto degli altri ad abbracciare la propria opinione sulla fede cattolica. Questo non è rispetto per l’avversario, ma piuttosto per i suoi errori o peccati. Questo è approvare il male, un punto a cui nessun cattolico può arrivare.

A volte, però, si arriva a quel punto pensando di non aver peccato contro l’intolleranza. Tale è il caso in cui il silenzio, di fronte all’errore o al male, dà un’idea di tacita approvazione.

In tutti questi casi la tolleranza è un peccato e la virtù si trova solo nell’intolleranza.

* * *

È comprensibile che alcuni lettori si irritino leggendo queste affermazioni. L’istinto di socialità è naturale nell’uomo, ed è questo istinto che ci permette di socializzare con gli altri in modo gradevole e armonioso.

Nella logica della nostra argomentazione, il cattolico è obbligato in un numero sempre crescente di circostanze a ripetere davanti al mondo l’eroico “non possumus” di Pio IX: non possiamo imitare, non possiamo essere d’accordo, non possiamo tacere. Di conseguenza, un clima di guerra, freddo o caldo, si forma presto intorno a noi, ei sostenitori degli errori e delle mode della nostra epoca perseguitano con implacabile intolleranza, in nome della tolleranza, tutti coloro che osano dissentire da loro. Una cortina di fuoco, di ghiaccio, o semplicemente di cellophane, ci circonda e ci isola. Una velata scomunica sociale ci pone ai margini degli ambienti moderni. Gli uomini lo temono quasi quanto, o anche più della morte stessa.

Non stiamo esagerando. Per avere il diritto di cittadinanza in tali ambienti ci sono uomini che si ammazzano di lavoro per infarto e donne che digiunano come asceti della Tebaide fino a mettere seriamente a repentaglio la loro salute. Ora, per perdere una “cittadinanza” di tale “valore”, solo per amore dei principi, bisogna amare teneramente quei principi.

E inoltre, c’è la pigrizia. Per approfondire un argomento, per avere gli argomenti interamente in mano per qualsiasi opportunità, per giustificare una presa di posizione, quanta fatica… quanta pigrizia. La pigrizia nel parlare, nel discutere, è evidente. Eppure, ancora più grande è la pigrizia nei confronti dello studio, e, soprattutto, la suprema pigrizia nel pensare seriamente a qualcosa, padroneggiare qualcosa, identificarsi con un’idea, un principio!

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Quanto è lontana dalla sottile, impercettibile, molteplice pigrizia di essere seri, di pensare seriamente, di vivere seriamente, l’inflessibile, eroica, imperturbabile intolleranza che in certe occasioni e in certe cose — forse sarebbe meglio dire in tante occasioni e in tante cose — è dovere del vero cattolico, oggi come sempre.

La pigrizia è la sorella dell’indifferenza. Molti si chiederanno, perché tanta fatica, tanto combattimento, tanto sacrificio se il nostro atteggiamento ci isola e gli altri non migliorano? Strana obiezione! Come se noi dovessimo praticare i comandamenti solo perché anche gli altri li pratichino e siano dispensati dal farlo se gli altri non ci imitano.

Testimoniamo davanti agli uomini il nostro amore per il bene e l’odio per il male per dare gloria a Dio. Anche se il mondo intero disapprova, dobbiamo continuare a farlo. Il fatto che gli altri non ci accompagnino non diminuisce il diritto che Dio ha alla nostra completa obbedienza.

Tuttavia, queste non sono le uniche ragioni per disdegnare l’intolleranza. C’è anche l’opportunismo. Essere in sintonia con le tendenze dominanti è qualcosa che apre tutte le porte e facilita tutte le carriere. Prestigio, comodità, denaro, tutto, ma tutto, diventa più facile e più ottenibile se si accetta l’influenza prevalente.

In questa prospettiva si vede quanto sia oneroso il dovere dell’intolleranza. Questo ci dà il punto di partenza per il prossimo articolo dove intendiamo esaminare i limiti dell’intransigenza ei mille sofismi che la circondano.

L’articolo precedente è stato originariamente pubblicato su Catolicismo , n. 75, nel marzo 1957. È stato tradotto e adattato per la pubblicazione senza la revisione dell’autore. –Ed.

Plinio Corrêa de Oliveira 1 maggio 2012

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